martes, 11 de abril de 2017

"Ai fanciulli del Rio della Plata", de Edmondo De Amicis (1892)



«Buone feste, buon anno. Il mio augurio v’arriverà molto tardi: accoglietelo non di meno benevolmente, perchè non m’è uscito mai dal cuore un augurio più sincero e più caldo di questo. A chi proprio lo manda? penserà qualcuno, forse. Ed io potrei nominare moltissimi di voi, perchè ricordo di moltissimi, non soltanto i nomi, ma i visi, le voci, e i posti che avevate nei banchi delle scuole, e appunto mentre scrivo, ho davanti un mucchio di ritratti vostri, e dei versi che mi recitaste con la voce malferma, e col viso un po’ chinato sulla spalla, per vergogna, dei componimenti, dei mazzetti di fiori secchi che ricevetti freschi e odorosi dalle vostre manine chiazzate d’inchiostro, e dei quaderni che mi cacciai in tasca di nascosto, mentre gli ispettori non guardavano. Potrei dire: — Mando il saluto a questo e a quell’altro dei miei piccoli amici e conoscenti, dei quali ho le immagini vive dinanzi agli occhi. — No; mando invece un saluto a tutti, anche a quelli che non vidi; un buon augurio a tutto quel piccolo popolo rosato, ricciuto, amoroso, trillante che si agita e cresce in mezzo al popolo grande del Rio della Plata, come una miriade di fiori vermigli e celesti dentro a un’alta messe matura; a tutti voi, bellezza, grazia, poesia della patria argentina; che foste una delle gioie più vive e che siete ora uno dei ricordi più gentili del mio viaggio.
  
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Sì, a tutti. Ogni volta che mi suona nella mente o all’orecchio questa parola: — Natale, — il mio pensiero vola tra voi, e mi par di vedervi raccolti tutti in una innumerevole folla di mille colori, come un immenso giardino delle terre del tropico, che si rimescoli al soffio delle grandi aure dell’Atlantico, spandendo per il cielo una fragranza misteriosa di giovinezza. In mezzo a migliaia di visetti candidi e di chiome bionde, ci sono migliaia di faccine brune e di capigliature corvine, e tra queste, degli aspetti strani per me, ma appunto per la stranezza più cari: dei visi neri, dei capelli crespi, delle carnagioni mulatte, dei colori cinerei e verdognoli non visti mai sulle sembianze umane; e lontano, all’estremità della folla, dei piccoli visi anche più strani, di color di terra e di rame, con gli occhi obliqui, con gli zigomi sporgenti, d’una espressione intenta e triste, non priva di dolcezza. E la folla ondeggia e gira, e agita in alto i cappellini ornati di penne di pappagallo, e bandiere bianche e azzurre, e giocattoli di Parigi, ed archi di legno di Chañar, e piccole bolas, levando un vocìo assordante, nel quale colgo qua e là sonore frasi spagnuole, e parole napoletane, liguri, piemontesi e lombarde, e vocaboli bizzarri di lingue ignote, simili a trilli d’uccello, e note sparse di canzoni monotone e austere della Pampa. Ed io apro con le palme quell’onda umana ribollente e raggiungo la figliuoletta d’un operaio della scuola italiana della Colonia, bacio in fronte il piccino vestito di raso d’un deputato del Congresso, e poi un pastorello dei monti di Catamarca, e una piccola castigliana di Buenos Aires, un gaucho di sette anni, e un monello genovese nato sopra un piroscafo della compagnia Lavarello, e poi un’angioletta argentina che fu concepita a Genova e messa al mondo a Mercedes. Buone feste, buon anno, buona fortuna a tutti, figliuoli di dieci popoli, rose e perle del nuovo mondo, picaflores parlanti della favolosa valle del Plata, belle e sante speranze, promesse benedette d’una società nova! Buone feste, siate felici, vogliatevi bene; date la mano ai piccoli meticci, voi creoli; baciate in fronte i piccoli indiani, voi altri europei, e chiamatevi fratelli, o cari fratelli lontani dei nostri figliuoli, dolci, amati, incancellabili ricordi dell’anima mia.


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Quanti piccoli ritratti di bimbi ho portati in patria, disegnati e coloriti nella memoria; quanti bei paesaggi della pianura e della montagna, nei quali campeggia la figurina d’uno di voi! Ricordo tra i primi, o meglio, rivedo, due figlioletti di contadini, piantati in groppa a un solo cavallo, che li porta di galoppo alla scuola della Colonia agricola di Speranza; l’uno appiccicato, incollato alla schiena dell’altro, che paiono un corpo con due capi o con quattro gambe; tutt’e due con la cartella dei libri a tracolla e le mani nelle tasche dei calzoncini, strizzati dal freddo della mattina, pavonazzi in viso e ancora mezzo insonniti, fuorchè nel momento che rispondono al nostro saluto: — Cerea! — dopo di che spariscono nella nebbia fina che copre la pianura sterminata. Spariscono nella nebbia, ed ecco due signore vestite di bianco in un palchetto del teatro Colombo, e tra l’una e l’altra, come posato sul velluto del parapetto, un mucchio enorme di riccioli nerissimi e lucidi, che non si vede di chi siano, ma che alzandosi tutt’a un a tratto con una scossa che li fa dondolar tutti quanti come un mazzo di bubboli, lascian vedere un viso maraviglioso di porteñita, due stelle d’occhi, un sorriso, una grazia di bocca e di fossette, una delle faccine più adorabilmente brune che abbian mai fatto palpitare d’orgoglio il cuore d’una madre argentina. Svanisce il palco col morir d’una nota del Tamagno, ed ecco una capanna di fango e di stoppia, un rancho che vidi vicino a Tucuman, sopra una via fiancheggiata da campi di canne da zucchero: dentro c’era un morto, fra due candele accese; tutta una famiglia nerognola stava inginocchiata, parte dentro, parte fuori, in scala, dai grandi vicino al letto, ai ragazzi in mezzo alla strada; e l’ultimo di questi era un putto di tre anni, color di mota, con una gran capigliatura arruffata, ginocchioni nella polvere, con le manine giunte, grasso, mezzo nudo, bello, sporco, adorabile: voltò verso di noi il suo musino di selvaggio, e senza disgiungere gli zampini, sorrise con la bocca piena: — povero innocente, pregando in faccia alla morte, mangiava! E un altro quadretto. Un bel ragazzo correntino di nove anni, elegante e svelto, d’un viso affettuoso e ardito, inquadrato in una porta del salone sur un piroscafo che va a Santa Fé, così che par disegnato sul fondo chiaro delle acque del Parana, e la sua testa spicca sopra il verde d’un’isola coperta di aranci. Il padre me l’ha presentato come uno dei più famosi cavallerizzi della sua generazione, capace di far quindici leghe al galoppo in ventiquattr’ore, e gli ha fatto recitar quattro strofette italiane, che sono quattro dei miei più amari rimorsi. Abbi anche tu il mio saluto, o simpatico ragazzo, a cui non seppi dir nulla, e t’avrei voluto dir tante cose per lasciarti di me una memoria buona e amabile come l’anima che ti traluceva dagli occhi. E ancora un’altra scena. Una sala vasta e splendida del Casino del Progresso, una mensa scintillante di cristallo e d’argento, coronata d’amici; e ritta accanto a un di questi, una figura per me curiosissima, una sorpresa etnografica, il primo esemplare di razza indiana ch’io vedessi, un servitorino di otto anni, d’un colore indefinibile, che faceva come una piccola macchia di barbarie in mezzo alla eleganza parigina della sala; ma di barbarie ingentilita, e non triste, perchè i suoi grandi occhi neri riflettevano la bontà paterna del padrone. Povero fior guaranì, trapianto in via Rivadavia! Ed era tanto diverso dai nostri nell’aspetto; ma pure quella sua maschera strana, dalle forme grosse e rudi, aveva gli stessi sorrisi graziosamente timidi, gli stessi vezzi ingenui, tutti gli atteggiamenti gentili e cari dei nostri fanciulli. Buone feste, buon anno anche a te, mio piccolo indio, e che tu possa essere un giorno un lavoratore onesto e contento, padre di figliuoli civili e liberi, e ch’io lo risappia, fra molti anni, quando i miei capelli saranno bianchi come i tuoi denti. E ancora un ricordo, l’ultimo: la casetta solitaria d’un colono lombardo, alla Candelaria; la prima casa di colono italiano in cui misi il piede. C’era un bimbo di quattr’anni sull’uscio, e gridava a una sorellina invisibile: — Te vegnet? — Era il primo contadinetto italiano ch’io potevo pigliare in braccio in America; avevo il cuor gonfio dalle commozioni varie della giornata; lo pigliai, ma con troppa violenza; si spaventò, si dibattè, mi sguisciò di mano e si ritirò in un canto a piangere, guardandomi in atto di diffidenza ed io rimasi un po’ vergognato, ma il cuore mi traboccava di affetto e l’amor di patria mi soffocava. Ti mando un buon augurio dal tuo paese, povero piccino, e il bacio sul capo che non ti potetti dare nell’altro mondo. Ma quanti, quanti altri ne rivedo e risento, di tutte le classi sociali, da un piccolo proprietario di sessantamila vacche, che aveva più milioni che capelli, fino al furfantello stracciato, bello come un picarillo del Velasquez, che mi correva dietro ogni mattina col giornale sul marciapiede di via Cangallo, dicendo con la voce roca e supplichevole: — Tómelo Usted! (Lo pigli) Tómelo Usted, socio! — Buone feste, buon anno, piccolo milionario. Buone feste, buon anno, socio.

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Buon anno anche a voi, care bambine delle scuole italiane, che rivedo ancora, rimaste a mezzo della lezione di storia patria, cercare con gli occhi un appiglio alla memoria nei ritratti di Garibaldi e di Umberto, appesi alle pareti, in mezzo alla carta d’Italia e allo stemma della repubblica platense; care bambine, che io vidi tante volte come a traverso a un velo, mentre scrivevate colle testine curve sui banchi, a traverso a un velo che dovevo cacciar con la mano, poichè dal capo di ciascuna di voi il mio pensiero rivolava per un arco di seimila miglia a posarsi sul capo dei miei figliuoli, e nel mormorìo delle vostre voci sentivo due voci d’un altro emisfero, che mi chiamavano, e mi parevan voci fioche e lamentose d’infermi! Buon anno anche a voi, buon anno a tutti, dalla splendida ricciutella del teatro Colombo al piccolo scamiciato di Tucuman, che pregava con la bocca piena. Che per tutto l’anno venturo nessun posto rimanga vuoto sulle migliaia di banchi delle scuole; che l’orrendo mostro strozzatore dei fanciulli non faccia echeggiare pur un grido d’angoscia nè in una casa, nè in un rancho, nè sotto una tenda; che la salute arrotondi e imporpori i visetti più smunti e più scolorati, dissipando dal cuor delle madri americane ogni inquietudine, come il pampero benefico dissipa ogni velo di nube dal loro cielo. E possiate far tutti un gran passo innanzi, in quest’anno, i nati nell’agiatezza verso la scienza, i nati nella povertà verso la fortuna, i nati nella barbarie verso la civiltà, tutte le bimbe verso la bellezza, tutti i fanciulli verso la forza, e gli uni e gli altri sulla via della bontà e del lavoro, e tutti quanti in quel largo e fecondo sentimento di tolleranza, di benevolenza, d’amor di patria senza superbia e di amor fraterno senza gelosie, il quale solo può far di dieci popoli un popolo, e di quattro razze uno Stato, duplicando nell’unione le forze di tutti. Buon anno, buone feste di Natale, o bambini dell’Argentina. I nostri le faranno con la neve; voi le farete sotto il sole ardente dell’estate. E sia mite il sole a tutti quelli che attraverseranno di galoppo le vaste pianure nude per recarsi dai parenti lontani, e spanda più che mai fresche le ombre sui loro riposi l’ombú solitario e ospitale, e brilli limpida la Croce del Sud nella notte desiderata, e lungo le coste interminabili dorma come un lago immenso l’Atlantico. Buone feste, buon anno a tutti, piccoli porteños e piccoli italiani, piccoli signori e piccoli gauchos, figlioli della città, della pampa, delle selve, delle Ande, maravigliosa generazione multiforme, che vedrete nei vostri ultimi anni una patria argentina trasfigurata e possente, quale appena la desidera o la sogna ora l’alterezza amorosa dei suoi figli o la gratitudine reverente dei suoi ospiti. Buone feste, dalle montagne di ghiaccio ai mari di grano, dai boschi di palme ai deserti di sale, buon anno a tutti, o cari fanciulli d’America, dolci, amati, incancellabili ricordi dell’anima mia.»



De Amicis, Edmondo. “Ai fanciulli del Rio della Plata”, Fra scuola e casa. Bozzetti e racconti. Milano: Treves, 1892.

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