martes, 28 de febrero de 2017

Emigrazione italiana, de Cesare Carocci (1900)



«In questi ultimi anni la emigrazione totale italiana, permanente e temporanea (se pur si possono, cosa ch’io non credo, insieme riunire) ha oscillato intorno ai 300 mila individui per anno, cioè dai 9 ai 10 per mille abitanti. Ma di questo totale circa due quinti e spesso più erano emigranti temporanei che partivano col proposito di riveder presto l’Italia: e dei rimanenti circa un terzo era compensato dagli immiganti, da quelli cioè che, dopo un periodo più o meno lungo di anni, o vittoriosi o delusi, tornavano in patria.
Nel 1897 emigrarono permanentemente 165.429 individui: ma dal solo porto di Genova ne riimigrarono 63.730 (dai quali, è vero, va tolto qualche migliaio di emigrati temporanei rimpatrianti e di viaggiatori), e l’eccedenza dei nati su i morti era stata in quell’anno di 407 mila.
Nel ’98 le cifre sono necessariamente alquanto cambiate: cause esterne ed interne hanno influito ad alterare i rapporti. I moti dolorosi del maggio ’98 con tutte le loro conseguenze da un lato, e dall’altro la guerra fra la Spagna e gli Stati Uniti, le minacce fra l’Argentina ed il Cile, la crisi economica generale e specialmente quella del caffè nel Brasile, non possono non avere determinato qualche deviazione nelle specie e nelle correnti della nostra emigrazione.
Colpisce a prima vista lo squilibrio grande che si è manifestato fra l’emigrazione permanente e quella temporane. Su un totale press’ a poco normale di 282.732 l’emigrazione permanente fu di 126.787 contro 165.429 dell’anno precedente; e la temporanea invece salì a 155.945, cifra non mai raggiunta, contro 134.426. Solo nel Piemonte, negli Abruzzi e Molise, e in Sicilia, la emigrazione permanente aumentò in confronto dell’anno avanti: in tutti gli altri compartimenti essa scemò, specialmente in Lombradia (che da 15.588 del ’97 si ridusse a 6.192 nel ’98), nel Veneto (da 26.036 a 8.278), nell’Emilia (da 11.275 a 5.265), in Toscana (da 10.568 a 5.558), nel Lazio (da 6.798 a 2.302), in Sardegna (da 2.731 a 24). Invece la temporanea, se si eccettui la sola Liguria, aumentò dovunque, e specialmente nel Veneto, nell’Emilia e in Toscana. Di modo che la emigrazione permanente italiana del 1898 scemò di 38.642 in confronto al 1897; la temporanea aumentò di 21.519; la totale scemò di 17.123.
Non meno eloquente è un altro quadro, secondo le destinazioni, comunicatomi gentilmente, per il porto di Genova, dall’ispettore N. Malnate. Poco ha oscillato la nostra emigrazione diretta all’Argentina o agli Stati Uniti; enormemente invece è scemata quella diretta al Brasile. Dal solo porto di Genova la media degli emigranti diretti al Brasile nel triennio ’95-’96-’97 fu di 82.611; nel 1898 essi furono appena 36.294.[1]
Ancora: il numero di quelli diretti al Brasile, spontanei, cioè col nolo pagato con i propri denari oppure col nolo di chiamata, ha oscillato pochissimo. La media dei tre anni suddetti fu di 73.377: e nel ’98 furono 63.591 contro 65.198 del ’97. La differenza è tutta nella emigrazione gratuita: la media del triennio fu di 68.872, invece nel ’98 non furono che 21.028.
Tali cifre parlano assai chiaramente, e ci dimostrano quanto le cause economiche nel fenomeno emigratorio siano più potenti che non i pericoli stessi delle guerre. Ci dimostrano anche come siano artificiali le correnti dell’emigrazione gratuita o favorita, se quella a pagamento, la vera, rimane indifferente dinanzi ad un minore esodo di 50 mila individui che gli anni precedenti partivano col nolo gratuito.
Tralascio se l’emigrazione in se stessa sia un bene o un male.
Un paese giovane, provvisto di grandi ricchezze naturali, con popolazione rara, inferiore adl bisogno per sfruttarle tutte, naturalmente non avrà emigrazione, sì bene immigrazione. Ma a un tratto il suo sviluppo naturale è troncato, lo sfruttamento delle sue ricchezze è ostacolato, una crisi insomma si è manifestata per uno squilibrio qualsiasi: la popolazione, ancor che rara, è già tropopa in quel determinato momento storico, e l’emigrazione naturalmente si manifesta. Esempio recente: la repubblica Argentina; recentissimo: alcuni Stati del Brasile.
L’emigrazione, scrive Leroy-Beaulieu, è una delle funzioni economiche, morali e politiche, più essenziali, che s’impongono ad un popolo civile, adulto e sano. E Mons. Bonomelli in una conferenza tenuta nel settembre del 1898 in Torino, in favore della Associazione Nazionale per soccorrere i Missionari cattolici italiani, [2] ripetendo press’ a poco ciò che avea scritto in una sua lettera pastorale del 1896, diceva: “I popoli vecchi, che minacciano di morire, mercè della emigrazione ringiovaniscono: solo i popoli infecondi, i popoli decrepiti, i popoli non emigrano”.
Ma pure possono non avere emigrazione anche i popoli giovani e sani e fecondi, come possono averne una fortissima i popoli vecchi e decrepiti. Perchè essa non dipende solo da fecondità maggiore o minore, da giovinezza o da decreptizza, ma da un complesso intricantissimo di cause, la cui somma è una sproporzione, anzi sproporzione, fra i mezzi produttivi attuali e le esigenze minime relative del popolo intero.
E tale sproporzione è oggi fra noi.
Nè è questione di mettere a una sterile cultura il milione o poco più di ettari coltivabili e ancora incolti delle terre d’Italia: come dice il Bodio, basterebbe appena a contenere la nostra emigrazione di due anni, ma non diminuirebbe lo squilibrio economico oggi esistente. Il quale non potrà scomparire o almeno attenuarsi – taccio di ogni riforma tributaria, militare, e simile – fintantochè l’agricoltura, proprio in quei 20 milioni di ettari ora male coltivati, l’industria, il commercio, tutte le altre risorse produttive, con perseveranza di sforzi intelligenti e ben diretti, non riusciranno ad uguagliare i mezzi al bisogno, e a mantenerli poi parallelamente avanzanti.
Oggi l’emigrazione per noi è necessaria: è un bene. Noi abbiamo, come dice il Bodio[3], una popolazione troppo fitta, nelle presenti condizioni industriali ed agricole, dato il rapporto ora esistente fra il capitale disponibile e il numero delle braccia.»

Cesare Carocci, Emigrazione italiana. Firenze: Ufficio della “Rassegna Nazionale”, 1900.


 Mons. Geremia Bonomelli




[1] Nel 1° semestre del 1899 l’immigrazione nel Brasile è ancora scemata più che della metà! Basti dire che il suo totale fu appena di 8.804 individui, dei quali 4.769 italiani, mentre nel semestre corrispondente del 1898, quando già si erano manifestati e crisi e rilascio, erano sempre stati 16.250 con 13.308 italiani. Invece cresce il numero di quelli che ripartono da Santos per l’Europa, l’Argentina, e altre parti d’America. Vedi il rapporto del R. Console a S. Paolo, in Boll. Min. Aff. Est. N. 146. Ag.-Sett. 1899.
[2] Pubblicata in “Gli Italiani all’Estero” (Esposizione generale it) Torino, 1898.
[3] Atti del 2° congreso geogr. it., Roma, 1896, p. 289 e segg.

Sobre la inmigración italiana en la Argentina, por Enrico Ferri (1909)



«En la Argentina la vida es mucho más fácil que en Italia. Esta es la impresión que se recibe. La vida cuesta el doble de lo que vale en Italia, pero las ganancias son de más del doble, tanto para los obreros como para los profesionales. La Argentina se ha vuelto uno de los países mayores exportadores de cereales y la tierra es allí tan fértil que produce además del trigo, el maíz, la alfalfa y el lino. Y la tierra es tan fecunda que, por ejemplo, del lino no se utiliza la fibra textil, vendiéndose sólo la semilla. Y la Argentina produce azúcar y produce vino. En Mendoza, cerca de la cordillera, he admirado a los italianos productores de centenares de miles de hectolitros al año. Pero ese vino no basta al consumo, porque, además de ser la viña escasa, una bordalesa (cerca de 200 litros) para ir de Mendoza a Buenos Aires paga en el ferrocarril de 18 a 20 liras, mientras que una bordalesa de vino italiano paga de 12 a 13, y aún menos, de Génova a Buenos Aires. El problema cada vez más grave es que en las provincias centrales de la Argentina (Buenos Aires, Santa Fe, Córdoba) se han vuelto escasas las tierras públicas o baldías. En la provincia de Buenos Aires, más grande que Italia, y en la provincia de Santa Fe, la tierra tiene ahora un valor excesivo. Hace veinticinco años se compraba en la provincia de Buenos Aires una legua de terreno fertilísimo (eso es de 25 kilómetros cuadrados) por 20.000 liras. ¡Ahora vale 400.000 y aún más! En la provincia de Santa Fe, en Rafaela, donde hay una colonia piamontesa, una concesión de 33 hectáreas de un piamontés (respecto de cuya familia hice una encuesta monográfica) fue pagada en 1882, 600 francos ¡33 hectáreas de tierra! Hoy, pues, vale de 12 a 13 mil liras. Así, pues, en esas provincias de la Argentina la emigración italiana está en condiciones económicas poco favorables. […]
Los italianos llegan al Brasil o a la Argentina y se detienen en las grandes ciudades. Esto es un gran mal. Buenos Aires tiene un millón doscientos mil habitantes; es la cabeza inmensa de un cuerpo pequeño por su población; es más del quinto de la población total del país. [...] Son otros los lugares adonde deben dirigirse los italianos, y para ello deben crearse las condiciones favorables, que hoy no existen.
Yo creo que sí, a propósito de convenciones marítimas (yo no conozco esa ley en detalles), nuestro gobierno y nuestras iniciativas privadas se pusieran de acuerdo con el gobierno de la Argentina, a fin de que la línea entre Génova o Nápoles y la Argentina desembarcara también emigrantes en Bahía Blanca, evitando que vayan a desembarcar en Buenos Aires, se tendría un medio práctico para impedir que los nueve décimos emigrantes se queden en Buenos Aires, donde la enorme cantidad de población da lugar a la desocupación y a las más graves desilusiones, mientras que la vida fácil está en aquellas regiones donde la tierra no está todavía detentada por los latifundios.»



Discurso sobre la inmigración italiana en la Argentina del diputado italiano Enrico Ferri (Buenos Aires, 22 de junio de 1909) publicado por el diario La Nación el 12 de septiembre de 1909. En: Documentos para la historia integral argentina 3, Buenos Aires, Centro Editor de América Latina, 1981.


domingo, 26 de febrero de 2017

L'emigrazione italiana nei suoi rapporti col diritto. Saggio, de Luigi Raggi (1903)



«È nostro intendimento di abbozzare un sintetico saggio di trattazione giuridica dell’argomento dell’emigrazione, saggio basato sui criterî generali della Scienza del Diritto, e svolto e portato a compimento con ordine strettamente sistematico.
Nessun studioso del Diritto Amministrativo ignora, quanto sia per lo più rimasta, specie in Italia, trascurata dai giuristi scientifici, fino a qualche tempo fa, tutta la parte speciale di questo Diritto, e particolarmente come sia stato troppo a lingo abbandonato alla pedestre e facile esegesi l’esame, dal punto di vista giuridico pure così importante, di quei principî legislativi che reggono le diverse banche dell’attività cosiddetta sociale dello Stato, tanto nel lato di essa che si profila immediatamente tra lo Stato e i suoi organi, quanto in quello che si delinea tra lo Stato e i sudditi con comandi e divieti.
Sarebbe invece nostro desiderio (conformemente agli esempi dei valorosi seguaci della nuova scuola italiana di diritto pubblico), oltre allo esporre le prescrizioni positive circa la intromissione statuale nel fenomeno dell’emigrazione, riannodare le figure giuridiche che si sviluppano nella specie considerata con i principî generali del Diritto Amministrativo, riconnettere la parte speciale con la parte generale dello stesso.

[...]

Quando è che possiam dire di trovarci in presenza dell’emigrazione?
La risposta a questa domanda è di grande importanza per il buon esito della indagine, perchè, come ben osservava il Boccardo, “indipendentemente dalla intrinseca gravità della quistione e dalla singolare complessità dei dati sui quali riposa, uno dei motivi della incertezza che, dopo tante biblioteche consacrate a trattarlo, circonda ancora il tèma dell’emigrazione, sta, a creder nostro, nella poca esattezza, con la quale si usò comunemente formularlo. Per le questioni scientifiche vale perfettamente l’aforisma sentenziato, dopo Aristotile, da Goethe, per gli intelletti umani: il più arduo còmpito è di trovarne e di segnarne esattamente i limiti”.
Ed in via preliminare notiamo a questo proposito che, se (come vedremo a suo luogo) è a discutersi, e fu discusso, circa la maggiore o minore convenienza di definire e circa il modo di definire nelle prescrizioni di legge le caratteristiche sì dell’emigrazione che della persona dell’emigrante, niuno ha mai contestato che alla scuola e alla scienza (sociale e giuridica) non solo sia utile ma necessaria una delimitazione precisa del fenomeno che si intende di studiare.
E sempre in via preliminare dobbiamo domandarci quale sia il metodo in base alla quale potremo decidere così a priori se l’una piuttosto che l’altra definizione della emigrazione, è più o meno giusta, più o meno corrispondente a verità. Perchè, quando la definizione d’un fatto sociale corrisponde esattamente a qualche cosa che esiste nella realtà, resta sempre questione assai grave il vedere se veramente quel complesso di rapporti che è compreso sotto la definizione costituisce il fenomeno definito, oppure tal fenomeno si cia fornito da una serie di dati rapportati ad altro termine definiente. Se non si è preventivamente d’accordo sopra l’entità e l’estensione del definiendo è assai malagevole stabilire la maggiore o minore esattezza della definizione. Quando la definizione sia logicamente ed etimologicamente corretta, riassuma tutti i dati essenziali del fenomeno che si pretende definire, e lo svolgimento di questi dati non impinga contro leggi o terminologie scientifiche già assodate; non può una definizione respingersi dall’ambito della scienza, solo perchè, partendo da diversi presupposti, si ha un concetto differente del complesso di fatti che si intende raccolto sotto il termine definiente.
Dobbiam quindi avvertire che, secondo noi, in materia (come l’attuale) su cui anche la cognizione volgare ha esercitato la propria indagine, una corretta definizione scientifica del fenomeno potrà allora soltanto aversi quando si coordini il complesso delle note che caratterizzano e distinguono i fatti sociali sottoposti dal sapere comune al termine “emigrazione” con le leggi e il linguaggio scientifico già accolti e prefissati.
In base a questo processo, noi riteniamo possa giungersi alla seguente definizione, da prendere come punto di partenza. Il fenomeno sociale dell’emigrazione consiste nel passaggio volontario di un numero qualunque d’individui residenti in uno Stato nel territorio d’un altro Stato, o in quello di una colonia o possedimento del primo Stato, coll’intenzione di risiedervi per un dato periodo di tempo, esercendo o impiegando ivi le proprie forze di produzione e di consumo, attendendovi cioè a una data industria, professione, arte, commercio o mestiere, o vivendo a carico o insieme ad altro individuo che attende appunto ad una delle accennate applicazioni.
Analizziamo un momento gli elementi che convergono nella posta definizione.
Indice e caratteristica sostanziale della emigrazione è il cambiamento di residenza che avviene per parte d’una quantità d’individui.
Ma questo cambiamento di residenza (presa la parola residenza non nel senso specifico giuridico, ma nel senso generico ed usuale del vocablo), perchè possa farsi rientrare sotto il concetto di “emigrazione”, occorre che avvenga dal territorio statuale a quello d’un altro Stato o d’un possedimento o colonia del primo.
Non dipende se non dal linguaggio empirico comune il criterio in seguito al quale un mutamento di residenza che avvenga ad es. nell’interno d’uno Stato non ricade sotto il fenomeno emigratorio. E se lo si vuol tradurre almeno con terminologia scientifica, bisogna (secondo noi) così rilevarlo: è emigrazione il mutamento di residenza che abbia luogo dal territorio d’una persona di diritto pubblico al territorio d’un suo possedimento o colonia, o a quello di altra persona di diritto pubblico, con cui la prima sia collegata da un rapporto soltanto di diritto internazionale. Così i cambiamenti di residenza che avvengono da un comune rurale ad un comune cittadino non sono compresi nell’emigrazione; non lo sono i passaggi da una regione ad un’altra nello stesso Stato; non quelli che si verificano tra due Stati di uno Stato Federale.[1] Sono emigrazione i passaggi dallo Stato alla colonia, quelli (ad es.) tra Stati d’una Confederazione, quelli fra Stati tra cui corra il vincolo della cosiddetta unione personale.
In secondo luogo occorre che il cambiamento di residenza sia volontario.
Non è qui il luogo di abbandonarsi a discussioni trascendentali e metafisiche sopra questo estremo, riannodandolo ad una delle più tormentose e tormentate questioni della filosofia; nè di indagare se questa volontà si determini o meno necessariamente e spinta fatalmente da elementi ad essa estrinseci; nè se la legge dei grandi numeri faccia apparire regolare e fisso ciò che erroneamente si può  ritenere prodotto dalla volontà conscia, autonoma e indipendente degli individui.
Ma è certo però che (determinata o meno, spontanea o meno) è necessario, inerendo all’uso normale del vocabolo “emigrazione”, l’intervento della volontarietà nella decisione del cambiamento di residenza: [2] un singolo, espulso coattivamente da un aggregato sociale, non è un emigrante.
Perciò a ragione osserva il Rümelin “che mentre le nascite e le morti appaiono come fenomeni fisiologici della vita individuale, le emigrazione, altro fattore del movimento della popolazione, sono il prodotto di un atto volontario dell’uomo”.
E indifferente invece Ioltre il rapporto di mero fatto della residenza) il rapporto giuridico che collega l’emigrante con lo Stato da cui parte. Tal rapporto potrà avere un valore (e lo vedremo in seguito) relativamente alla ingerenza del potere statuale nel fenomeno migratorio, ma dal punto di vista sociale l’individuo che abbandona volontariamente uno Stato (ove risiede) per passare in un altro, sia o no suddito o cottadino del primo, è sempre un emigrante.
Necessario da ultimo onde caratterizzare l’emigrazione è l’elemento intenzionale, richiamato e descritto nella definizione.
Ad ed. chi vive d’entrata e si trasferisce all’estero onde godere a piacimento dle proprio patrimonio non contribuisce all’emigrazione, come non è emigrante chi si reca all’estero per ragione di ufficio pubblico esercitato nel proprio paese, per amore di studio, per viaggio di diletto, per visitarvi un parente, esclusivamente per isfuggire ad una pena.
Non tutti adunque gli individui che cambiano residenza, e da uno Stato passano in un altro, sono emigranti.
Riteniamo invece non dover costituire parte integrante del concetto sociale dell’emigrazione lo estremo dell’“animo di stabilirse durevolmente all’estero” o quello più radicale, ma analogo, “dell’animo di stabilirsi all’estero senza speranza, nè pensiero di ritorno”, estremi che taluno vorrebbe aggiungere a quelli da noi elencati.
La diversità tra gli intendementi che inducono all’emigrazione; le diversità cioè tra quello di stabilirsi per poco, e tra quello di stabilirsi durevolmente o per sempre altrove, può contribuire a dinstinguere, secondo gli stessi, diverse specie di emigrazione, ma l’emigrazione sussiste sempre, purchè un individuo, trasportando all’estero la propria residenza per ivi esercitare la propria forza di lavoro e la propria potenzialità di consumo, sia animato dall’intenzione di soggiornare all’estero a tale scopo per un qualunque periodo di tempo.»

Luigi Raggi, L’emigrazione italiana nei suoi rapporti col diritto. Saggio. Città di Castello: S. Lapi Tipografo Editore, 1903.




[1] Si noti però che è gravissima quistione se il rapporto che esiste fra lo Stato Federale e gli Stati-membri, e questi Stati-membri fra loro sia un rapporto meramente di diritto pubblico interno, oppure affetti anche il diritto pubblico estermo.
[2] Se l’emigrante non ha ancora la capacità fisica o giuridica d’una volontà, occorre che la volontarietà e l’elemento intenzionale sussistano in chi ne ha la rappresentanza legale.

Il libro italiano nella Repubblica Argentina. Osservazioni e note, de Carlo Cerboni (1898)




«Coloro che per la prima volta visitano l’Argentina, non privi di un curioso e inteligente spirito di osservazione, sentono la propria attenzione richiamata da questo fenomeno, tra i molti altri: la sproporzione smisurata che vi ha – tra il numero degli italiani, come colonia, il risparmio accumulato, le terre dissodate, le industrie e i commerci intrapresi da essi, - e il grado gnerale di coltura della nostra collettività e l’influenza esercitata sull’ambiente sociale in cui si è ridotta a vivere.
Questa sproporzione ha fatto dire ad un giornale straniero: che nella Confederazione platense la mente era francese, il capitale britannico, e il braccio – il braccio solamente – rimaneva italiano.
Molto di esagerato vi è in tale affermazione, specie nella sua prima parte; perchè invero la mente argentina, che viene formandosi con lento, sì, ma continuo e sicuro progresso, si è assimilate ormai le idee dei più svariati paesi; e la società cui essa appartiene è, d’altronde, troppo cosmopolita e ancor troppo giovane per avere in sè una tendenza fissa e foggiarsi su un modello unico e costante.
Ad ogni modo, se come “elemento intellettuale” noi siamo lontani dall’avere quella importanza che il numero parrebbe indicare e dovrebbe indurre, non è detto perciò che l’affermazione del foglio citato dianzi sia, per quanto ne riguarda, prettamente esatta.
Inoltre, può ben darci conforto il pensiero che la sproporzione, cui accennavamo, va scemando di anno in anno, tanto da farci sperare con fodnata ragione che essa debba finalmente scomparire.
A questo felice risultato contribuiscono, in un ambiente che non ha nulla d’ostile per noi, il teatro ed il libro, - il libro specialmente, quantunque il teatro sia stato il primo e più efficace mezzo di propaganda, che la nostra coltura abbia avuto ai propri servigi.
Noi parliamo, qui, principalmente del teatro di musica. La musica italiana, sì facile ad essere intesa e sentita, ricca tanto di vena melodica e tanto eloquente nell’espressione, ha dato per la prima l’idea intuitiva d’una grande e gloriosa Italia intellettuale; e ciò in tempi già lontani, allorquando la maggioranza quasi assoluta della nostra colonia platense, composta di incolti lavoratori, di rudi braccianti, non avrebbe potuto fare una simile rivelazione. Poi, l’affinità fra i due idiomi – italiano e spagnuolo, - il contatto diuturno fra la gente delle due nazionalità, ed un sentimento istintivo di conoscere e d’indagare, che nei popoli giovani accompagna una predisposizione naturalmente benevola ad ammirare le cose nuove ed il loro portato, hanno reso maggiore quell’interesse per le manifestazioni della nostra intellettualità.
In pari tempo, miglioravano le condizioni generali di coltura della colonia italiana.
Figli d’un paese di recente costituitosi in nazione una e salda, sorse allora da parte nostra un desiderio intenso d’istruire; parlò in noi, nobilissima, l’ambizione di diffondere ovunque la coltura nazionale, ben sapendo che, al postutto, il farci conoscere meglio sarebbe valso a renderci vieppù rispettati e stimati. Su cotesto cammino – possiamo ora asserirlo con franco orgoglio e compiacimento – noi abbiamo fatto passi di gigante, non solo, ma, quel che più importa, passi sempre più sicuri e progressivi.
Frattanto, vennero crescendo le giovani generazioni argentine derivate da noi; e, nel campo morale, andammo superbi di una più alta ed angusta efflorescenza, merè la fondazione di scuole italiane nella Repubblica Argentina. Infatti, coteste scuole, che mirarono sempre a tenere sveglio nei loro alunni un sentimento di memore affetto per la nazionalità d’origine e più ancora a consolidare un vincolo nella razza, hanno avuto, aiutate dal Governo, un risultato dei più soddisfacenti.
Com’era naturale, il libro italiano fu magna pars di tutto questo movimento, e il nostro commercio librario ne risentì a sua volta benéfici effetti. A mano a mano che la coltura della colonia veniva progredendo e affinandosi, e più numerosi facevansi i figli d’italiani, frequentando le scuole secondarie e le università, moltiplicandosi nell’esercizio delle professioni liberali, la sfera d’azione della Libreria italiana aumentava di periferia, cossichè dalle poche e modeste opere, dirò così, d’amena letteratura, ch’erano le sole vendute, una volta, essa si estese ad abbracciare il campo delle lettere, della medicina, dell’ingegneria, del diritto, delle molteplici industrie.
E qui stimo opportuno ed utile richiamare l’attenzione dei nostri Editori su questo fatto, che i paesi del Rio della Plata sono forse i soli, tra gli stranieri a noi, nei quali il libro italiano non si diriga esclusivamente alla nostra emigrazione.
È una constatazione incoraggiante, questa, della quale bisogna assolutamente tener conto, e che suona oltre la patria come una magnifica promessa agli Editori e agli Autori.
I progressi fatti in questi ultimi anni dal nostro commercio librario ci dicono che la conquista intellettuale della Repubblica Argentina è un fatto possibile. E gli è appunto di tale conquista, nobile ed utile pel vincitore come pel vinto, ch’io intendo di occuparmi ora, tentando d’indagare quale fu la sorte toccata alle prime edizioni importate qui, come il commercio librario fece i suoi primi passi; o cercando quali furono le resistenze da esso incontrate, di che deficenze o pecche non andasse immune; e indicando, per ultimo, quali sieno, a parer mio, le vie da battere e i criterî da seguire affinchè la Libreria italiana nell’Argentina prenda il posto che le spetta, - in un paese di quattro milioni di abitanti, di cui ben ottocentomila sono nostri connazionali, e più di mezzo milione discendono dalla nostra razza.»


Carlo Cerboni, Il libro italiano nella Repubblica Argentina. Osservazioni e note. Roma: Enrico Voghera, 1898.

sábado, 25 de febrero de 2017

Problemi dell’emigrazione italiana, de Ernesto d'Albergo (1949?)



«La tempestività della iniciativa che si è assunta la Camera di Commercio di Bologna, con il conforto di adesione delle altre Camere, della autorità di governo, di studiosi e degli ambienti della produzione e del lavoro, merita di essere sottolineata per l’elogio che si ha il dovere di rivolgere al Presidente ed alle commissione che hanno collaborato al successo dell’iniziativa medesima.
È questo il momento storico in cui il problema va reimpostato con ampiezza di panorama, ora che si viene a dare un certo assetto alla economica internazionale si rafforzano ed orientano i rapporti internazionali dell’Italia. In certo senso il congresso di Bologna è il naturale complemento di quello promosso dalla Confederazione dell’industria sui problemi della disoccupazione operaia. Non è venuta meno l’indicazione della soluzione della emigrazione fra quelle che possono conocrrere alla più ampia impostazione del problema della utilizzazione delle forze crescenti di lavoro dell’Italia.
Per rendersi conto delle direttive che in Italia sono state seguite in questo campo, quasi con ricorrere dei motivi che nei secoli giustificarono la scienza nuova Vichiana, notiamo l’alternarsi di visioni favorevoli e contrarie alla emigrazione. Sono i lati subiettivi della politica e della psicologia dei popoli. Se fosse possibile senza timore di eccedere in generalizzazioni, si dovrebbe dire che il prevalere di sentimenti operanti in senso nazionalistico e della affermazione in sede di espansione coloniale, abbia creato orientamenti di politica anti-emigratoria.
Si pensi all’atteggiamento di Crispi, dalla ideologia dello “stato forte” ed espansivo attraverso imprese coloniali, ed alla contemporanea legislazione che subordinava l’emigrazione degli uomini dai 18 ai 32 anni, ad apposita autorizzazione (mi riferisco alla legge del 30 dicembre 1888). Si deve arrivare al primo testo organizo del 30 gennaio 1901 per avere la dichiarazione della libertà della emigrazione, con clausole per i minori, e con la protezione degli emigranti, fra l’altro organizzando il movimento migratorio con la creazione del Consiglio per l’emigrazione e del Commissariato per l’emigrazione.
Venendo ad epoca a noi più vicina, pur dopo aver detto nel 1923 in una lettera a De Michelis, benemerito dei problemi del lavoro, che “è inutile discutere se l’emigrazione sia un bene o un male essendo l’effetto di una incomprensibile necessità demografica”, Mussolini nel 1927 con il decreto legge del 28 aprile sopprimeva il Commissariato per l’emigrazione sostituendolo con una Direzione genereale degli Italiani all’estero sotto il ministero degli esteri, e poco dopo (18 giugno 1927) sopprimeva il “fondo” per l’emigrazione che diveniva un capitolo del bilancio degli esteri e il Consiglio per l’emigrazione (D.L. 23 ottobre 1927 n. 2146).
L’emigrazione, secondo il testo della circolare del 28 aprile da fatto tecnico-amministrativo, diveniva problema di ordine politico. Incalzava Grandi, sottosegretario, fra l’altro: “noi dobbiamo avere il coraggio d’affermare che l’emigrazione è un male quando, come oggi, essa ha luogo verso paesi stranieri. L’emigrazione è un bisogno, ma sotto la sovranità nazionale. I popoli, oggidì, misurano le loro forze in base alla loro popolazione e alla loro vitalità demografica”. In tale visione si inquadrano in seguito i provvedimenti tendenti ad agevolare il rimpatrio degli Italiani dall’estero.
Soltanto la grande crisi economica mondiale indusse le autorità italiane ad essere più liberali verso l’emigrazione. Naturalmente questa urtava contro le difficoltà che, nel frattempo, all’estero si opponevano alla immigrazione. Per gli Stati Uniti ricordiamo l’Atc  del 16 maggio 1924 che, rendendo più rigorose le restrizioni del 1921 portava al 2% del livello del 1910 il contingente ammesso di provenienza italiana.
È così che verso codesto grande mercato nel periodo 1925-32 la media scendeva a 27.662 immigrati.
Con questo dato, entriamo nell’aspetto quantitativo del fenomeno, che si inquadra nella politica economica del paese nella fase nuova.
Essa è ora di nuovo orientata nel senso della ricerca delle vie per l’espansione del lavoro all’estero. Altro aspetto dei “ricorsi” che si registrano in questo campo, come le citazioni dei due periodi storici dimostrano. Ora il fatto migratorio torna ad essere di carattere economico-amministrativo. Se aspetto politico esso assume, ciò ha luogo nel quadro della progettata Unione Europea e più ancora nello spirito che anima l’ERP ovvero la collaborazione internazionale che non è limitata al campo finanziario o delle quantità economiche obiettive ma deve tener conto del fattore subiettivo, costituito dal lavoro, che è il motore definitivo di quelle che vengono apprezzate come combinazioni produttive, fonti di ricchezza e di benessere nel mondo.»

Ernesto d’Albergo, Problemi dell’emigrazione italiana. Bologna: Dott. Cesare Zuffi – Editore, 1949 (?).


L’Argentina e l’immigrazione italiana, de R. M. Vulcano (1926)



«L’emigrazione europea da trenta e più anni ha preso uno sviluppo considerevole e per alcuni paesi addirittura allarmante. Nei tempi andati essa era causata, quasi esclusivamente, dalla lotta politica o dal dissidio religioso. Oggi ben altre e più complesse ed intricate cause costringono gruppi d’individui di quasi tutta la vecchi Europa – e specialmente i latini – a varcare l’Oceano. Nè questa vasta corrente sembra voglia arrestarsi, poichè, tolte speciali circostanze di tempo e di luogo, dalle statistiche dei diversi stati di Europa possiamo agevolmente vedere che il numero degli emigranti serba sempre una media costante. Vero è che la progredita scienza marittima, la faciltà di traffico, i nuovi mezzi di trasporto, la sicurezza e la sollecitudine con la quale oggi i grossi piroscafi solcano i mari, compiendo in breve viaggi lunghissimi, altra volta pericolosi, ha in certo modo favorita l’emigrazione. Ma ben altre cause e d’indole affatto diversa hanno spinto e continuano a spingere gli europei verso il nuovo mondo. In quasi tutti i paesi d’Europa, anche negli importanti centri agricoli ed industriali, la densità della popolazione rende la ricerca del lavoro affannosa e difficile. La pochezza poi delle terre rispetto al numero degli abitanti costituisce della proprietà, anche piccola e meschina, l’esclusivo privilegio di una determinata classe sociale. La mancanza adunque del lavoro ed il desiderio di poter conquistare quella agiatezza che nel proprio paese sarebbe vano sognare, spinge ad emigrare specialmente per le Americhe, ove la vastità del suolo, la scarsezza della popolazione rendono la proprietà, e di conseguenza la ricchezza, più facilmente conquistabile e la ricerca del lavoro meno affannosa.
A questi due fattori d’indole assolutamente economica, che sono, senza alcun dubbio, gli unici che hanno prodotto e che producono il fenomeno dell’emigrazione, bisogna aggiungerne altri affatto speciali. Un desiderio di novità, di avventure, di ricchezze smodate e non di razionale miglioramento, consiglia molti di abbandonare il suolo della patria e recarsi ove credono i loro progetti di facile attuazione. La delinquenza ha anche dato, maggiormente per lo passato, il suo contingente alla corrente emigratoria: molti, volendo sfuggire alle patrie galere o al rigore delle leggi, si sono recati ove l’impunità era sicura per la insufficienza dei trattati internazionali.
Dalla statistica dell’emigrazione noi constatiamo che centomila e più italiani lasciano annualmente il suolo della patria divisi in due grandi gruppi, l’uno diretto verso il Sud, l’altro verso il Nord-America.
Nè bisogna credere che il fenomeno dell’emigrazione – è invalso il malvezzo di chiamare fenomeno un fatto sociale – sia per l’Italia di lieve o di trascurabile importanza.
Il traffico emigratorio ha influenza non solo sul complesso ingranaggio del nostro commercio marittimo, ma anche sul risparmio nazionale e sullo sviluppo o meno delle nostre classi agricole.
L’emigrazione, negli anni passati, ha reso possibile non solamente nei maggiori centri agricoli dell’Italia meridionale, ma anche nei più piccoli e abbandonati paeselli, la formazione di una giovane democrazia rurale, che ha gradualmente trasformata e modificata nella sua intima struttura la nostra azienda agricola.
Nell’ora che volge, potrebbe veramente rappresentare quella tale valvola di sicurezza di cui gli economisti, i sociologhi e gli scrittori di cose di emigrazione hanno fatto tanto abuso.
Ho sempre sostenuto, al pari altri, certo più autorevoli di me, che l’avvenire della nostra emigrazione sia nel Sud-America: Argentina, Uruguay, Brasile, a patto però che sia veramente ed efficacemente protetta dal nostro Governo e sorretta dal capitale italiano.
Raccolgo in un volume una parte di quanto pensai, scrissi e pubblicai sull’Argentina.
L’argomento mi sembra di attualità.
Credebo che molte delle modeste osservazioni fatte fossero sorpassate dal tempo e distrutte dalla critica. M’ingannavo. Il problema posto allora permane ancora oggi.»

R. M. Vulcano. L’Argentina e l’immigrazione italiana. Napoli, 1926.


viernes, 24 de febrero de 2017

L’opera della “Dante” fuori del Regno nel 1914-15, Atti della Società Nazionale Dante Alighieri (1916)




L’opera della “Dante” fuori del Regno nel 1914-15.


 

«ARGENTINA.

Buenos Aires. – Il Comitato, che è presieduto dal dott. G. B. Gonella, commemorò il Natale di Roma alla presenza del Ministro Plenipotenziario comm. Vittore Cobianchi, del R. Console Generale comm. Davide De Gaetani e del comm. Tito Luciani presidente della Federazione delle Associazione italiane, e delle maggiori personalità della Colonia.
Il discorso fu tenuto dal R. Ispettore Generale dell’emigrazione cav. dott. Adolfo Vinci, e fu una bella rievocazione delle Repubbliche marinare italiane.
Seguì uno scelto programma vocale e strumentale con vive acclamazioni a tutti gli esecutori.
- Il Comitato per fare conoscere ai connazionali e anche agli argentini le bellezze d’Italia ha comperato un apparato cinematografico, che trasportato nei diversi saloni delle società italiane, gentilmente concessi, svolge delle interessanti pellicole di paesaggi e monumenti del bel paese ed è di valido aiuto per conferenze descrittive.
- Commemorò solennemente il Bramante, nella ricorrenza del quarto centenario della sua morte, con un discorso dotto ed elevato di Folco Testena.
- Inviò al Consiglio Centrale una rilevante somma, raccolta per sottoscrizione fra i componenti il Consiglio Direttivo e ricavato di una serata di beneficenza, a favore dei danneggiati del terremoto della Marsica.

La Plata. – Il Comitato è presieduto dal prof. Angelo Licitra.
Si è efficacemente interessato alle locali Scuole Italiane e per la festa della Dante ebbe luogo la solenne premiazione degli alunni alla presenza del R. Console d’Italia conte Tornielli.
Possiede una biblioteca circolante e tiene aperta ai soci una sala di lettura con giornali e riviste italiane.

Mendoza. – Malgrado le condizioni generali di crisi, il Comitato muove i suoi primi passi fiducioso nell’avvenire. Il 20 settembre si aprì la Scuola serale per gli operai poveri, che è frequentata da circa 50 alunni.

Rosario di Santa Fè. – Il Comitato è presieduto dal dott. Enrico Fergola ed è sempre prospero e fattivo.
Conta circa 700 soci ai quali è sempre aperta la sala di lettura e la biblioteca del Comitato che contiene utili opere letterarie e scientifiche offerte da alcuni benemeriti.
Ha un Sottocomitato femminile, presieduto dalla signora Nina Infante Ferraguti, e molto se ne giova per l’opera di propaganda.
Coi Sottocomitati di Marcos Yuarez e di Casilda il Consiglio direttivo ha mantenuto vincoli di buona fraternità.
Ha creduto opportuno di fondere la sua azione con quella delle Scuole e del Giardino d’infanzia Dante Alighieri da esso zelantemente diretti e sostenuti col valido contributo della Colonia. Alle Scuole assai rigogliose sovraintende una Commissione composta del Consiglio direttivo della Dante, del rappresentante il R. Governo, e dei delegati delle Società italiane che aderirono alla unificazione.»


Atti della Società Nazionale Dante Alighieri. Bollettino semestrale. Num. 43 – 1° Gennaio 1916 (Roma).

Vita italiana nell’Argentina. Impressioni e Note, de Francesco Scardin (1899)




«Le correnti migratorie, gli scambi commerciali e i traffici non sono riusciti finora a diffondere negli stati europei – e segnatamente in Italia – la conoscenza dei paesi del Sud-America che in proporzioni molto limítate; onde le classi medie e popolari d’oltre oceano obbediscono, in proposito, a preconcetti le cui conseguenze non possono a meno di riuscire dannose agli interessi generali.
Scrittori di buona volontà non mancano di venire spesso alle regioni platensi col proposito di studiare a fondo la vera situazione delle cose; ma o vi si trattengono troppo poco per dirne poscia con coscienza e competenza, o pubblicano libri e relazioni sospettati di soverchia parzialità così nel contenuto dei singoli giudizi come nell’esposizione delle indagini compiute. E tutto rimane nella falsa luce di prima.
Gli emigranti – dal canto loro – non possono essere elementi di propaganda utile e istruttiva. Venuti in cerca di lavoro, nella maggioranza analfabeti e tozzi, badano sopratutto al pane ed a racimolare qualche risparmio. La diversità degli usi, le nuove forme della vita sociale, l’arte cui la loro intelligenza – d’altronde – non giungerebbe, le leggi alle quali – senza capirle – obbediscono, li lasciano nella più completa indifferenza. E tornano in patria come ne sono partiti, riassumendo quandochessia le loro impressioni d’America in una frase vuota e inconcludente.
E ancora quelli che tornano e che la loro coltura e il loro spirito d’osservazione sarebbero in grado di raccontare qualcosa seriamente, se hanno acciuffata la fortuna descrivono questi paesi coi più smaglianti colori, veri paesi di cuccagna dove i campi danno messi d’oro; se invece li ha perseguitati una sorte avversa, narrano di mille tristi vicende e di un’esistenza resa insopportabile da una infinita serie di ostacoli e peripezie.
Poi come gli emigranti – quando ne siano richiesti – ripetono di orde brigantesche che assaltarono questa e quella fattoria, e incendiarono e distrussero; come ripetono della necessità di andare armati fino ai denti e di tenere il portafoglio sempre stretto fra le mani, senza distinguere Buenos Aires – per esempio – dalle regioni del Chaco e dalle lande incustodite della Pampa, ne avviene che – almeno la gente volgare – finisce per vedere aggressioni e incendi e ladrocini ovunque, e dovunque una imbellettatura di civiltà sopra un fondo di barbarie.
Il volgo italiano ha dell’America un concetto vago, indeterminato, confuso. E a volre gli si affaccia all’immaginazione come una terra senza confini, e a volte racchiusa in confini così ristretti da potersi eguagliare ad uno stato europeo di modesta estensione, facile ad essere percorso in lungo ed in largo a proprio talento.
Perciò non vi riesce strano quando alla viglia della vostra partenza per la repubblica Argentina, Tizio con un fiume di parole dolci e cortesi vi prega di porgere i suoi saluti all’amico Caio residente – mettiamo – a San Paulo; e un secondo d’informarlo suvito, col primo postale diretto in Italia, delle condizioni in cui versa Sempronio stabilitosi da parecchi anni a Pernambuco; e un terzo di recapitare un bigliettino ad un suo parente il quale debe trovarsi in America ma non saprebbe precisamente dove!...»


Francesco Scardin, Vita italiana nell’Argentina. Impressioni e Note. Buenos Aires: Compañía Sud-Americana de Billetes de Banco, 1899.

jueves, 23 de febrero de 2017

Vade-mecum dell'emigrante (1902)




«Dell’emigrante

Emigrante non è soltanto l’uomo povero che abbandona la patria, con viaggio gratuito, ma anche colui che pura vendo una scarsa fortuna e pur essendo riuscito  con gravi sacrifizî economici a riunire i mezzi pel suo trasporto, si allontana per un tempo indeterminato dalla patria per cercare altrove un lavoro più proficuo, tuttochè non abbia l’idea di abbandonarla, ma di farvi ritorno quando che sia.
Agli effetti della Legge 31 gennajo 1901 sull’emigrazione, emigrante è il cittadino che si reca in paese posto al di là del Canale di Suez (escluse le Colonie ed i Protettorati italiani), o in paese posto al di là dello Stretto di Ghibilterra (escluse le coste della Spagna, del Portogallo, della Francia, del Belgio, della Danimarca, della Russia, della Svezia e Norvegia, dell’Inghilterra, dell’Islanda).
Non sono considerati come emigranti gli italiani che partono spontaneamente e a proprie spese e viaggiano oltre il Canale di Suez senza superare il numero di cinquanta.
La legge viene incontro all’emigrante quando è ancora dentro la soglia del paese nativo, col punire coloro che provocano o favoriscono l’emigrazione d’una o più persone contro le prescrizioni delle leggi e dei regolamenti; col vietare al vettore ed ai supi rappresentanti di exxitare pubblicamente ad emigrare, ferma la disposizione dell’art. 416 del Codice Penale, ossia la pena – inflitta a chiunque, a fine di lucro, induce un cittadino ad emigrare, ingannandolo o con lo addurre fatti insussistenti o col dare false notizie – della reclusione da uno a cinque anni e della multa non inferiore alle lire cinquecento; col punire con la reclusione fino a sei mesi e colla multa sino a lire mille chiunque con manifesti, circolari o guide concernenti l’emigrazione, pubblica scientemente notizie o indicazioni false, o diffonde nel regno notizie o indicazioni di tale natura stampate all’estero; col prescrivere che le circolari e glu annunzî di qualunque specie fatti da parte dei vettori, debbono indicare: la stazza lorda e netta dei piroscafi, la data della partenza, gli scali e la durata dell’intero viaggio di andate; col punire con ammenda fino a lire mille il vettore che intrometta tra sè e l’emigrante altri mediatori che non siano i proprî rappresentanti debitamente riconosciuti; col dare facoltà al Ministero degli Esteri, d’accordo con quello dell’Interno, di sospendere l’emigrazione verso una determinata regione, per motivi d’ordine pubblico, o quando possano correre grave pericolo la vita, la libertà, gli averi dell’emigrante; col provvedere, nei porti di Genova, Napoli e Palermo e nelle altre città che fossero determinate per Decreto reale, alla nomina di un ispettore dell’emigrazione, investito anche della qualità di ufficiale di pubblica sicurezza, che eserciti le atttribuzioni seguenti: accertarsi che le navi esibite al trasporto degli emigranti siano idonee al trasporto eseguendo una visita ad ogni partenza; visitare le navi nazionali o straniere ad ogni arrivo e partenza con passeggieri: provvedere al ricovero degli emigranti poveri, sui reclami avanzati dagli emigranti, curando infine che la Legge ed il Regolamento sull’emigrazione siano esattamente osservati; col provvedere infine alla istituzione nei principali centri di emigrazione di Comitati mandamentali o comunali, presieduti dal pretore od in mancanza del giudice conciliatore o dal sindaco o da chi ne fa le veci, e composto di un parroco, di un medico e di un rappresentante di società operaje o agricole locali.
A questi Comitati l’emigrante potrà rivolgersi per avere informazioni circa le formalità da compiersi per ottenere il rilascio del passaporto e gli altri documenti occorrenti per ottenere l’imbarco; quali sieno le condizioni generali del paese in cui intendono di emigrare; quali sieno i mezzi di trasporto, i prezzi dei noli, la durata del viaggio, il nome dei piroscafi, il porto e la data della partenza; infine quali norme debbono seguire per far valere i loro reclami contro i vettori.
Negli Stati ove si dirige a preferenza l’emigrazione italiana, saranno istituiti a cura del Ministero degli Esteri, anche mediante accordi coi rispettivi governi, uffici di protezione, informazioe ed avviamento al lavoro.»

Vade-mecum dell’emigrante. Milano: Società Editrice Sonzogno – Biblioteca del Popolo, 1902.


miércoles, 22 de febrero de 2017

Novelle d'oltremare, de Cesarina Lupati (1920)




«Durante il mio breve soggiorno a Santa Fè – la vecchia capitale della provincia omonima, di cui è gemma Rosario, seconda città della Repubblica Argentina – conobbi una simpatica coppia di italiani: i coniugi Orlandi.
Ne’ miei ricordi d’America, essi stanno a rappresentare il tipo caratteristico dei nostri emigrato di cinquant’anni fa, i quali portarono veramente i penati fuor della patria, per sempre, non conservando di essa che l’accento e le scolorite memorie dell’adolescenza lontana, vaghe e imprecise come visioni di una vita anteriore.
I coniugi Orlandi non avevano figli; tuttavia non sentivano il peso della vecchiaia solitaria, poichè impiegavano tutto il tempo nel volersi bene, e pare non restasse loro un briciolo d’ozio per lagnarsi d’esser soli.
Si erano sposati in Italia giovanissimi, la bellezza di cinquant’anni addietro, ed erano partiti subito per l’Argentina, non allontanandosi mai più.
Potrei fare il ritratto di quei due ottimi vecchi, tanto mi son vivi e presenti nella memoria: lui bassotto e tarchiato, ma eretto sulla vita con tale intenzione di giovinezza da sembrar più alto di un palmo di quanto effettivamente era; colorito e bruno di viso, biancheggiante solo nei capelli nelle sopracciglia e nei baffi, simile al medaglione di bronzo di un monumento spruzzato di neve. Lei grassa e bianca sotto i capelli biondastri, inchiodata in una poltrona dalla idropisia, che le acque di Caceuta[1] non guarivano più; ma, anche nell’infermità, gioviale e buona con tutti, amorosa verso il suo compagno come una sposa di vent’anni... quand’è amorosa.
Il cavalier Orlandi, maestro di musica e di scherma, ex-tenente dei bersaglieri – doveva essere stato un bellissimo bersagliere! – aveva accettato in gioventù una scrittura dal governo Argentino per un posto di capomusica reggimentale; in testa al suo reggimento aveva percorso, quando le ferrovie inglesi non esistevano ancora, in lungo e in largo la Repubblica, da Formosa a Ushuaia, da Bahia Blanca a Tucuman, da Corrientes al Chubut; e non aveva da frugare a lungo dei ricordi di trent’anni di servizio attivo (quanto attivo!) per trovare gustoris episodi da raccontarmi.
Ma non gli piaceva di ricordare e lasciava volontieri la cronistoria del passato alla sua fedele compagna, che l’aveva seguito di guarnigione in guarnigione, forte e impavida, egli diceva, “come Anita seguiva Garibaldi”.
Ella, povera signora, lo rimpiangeva, il passato e ne aveva la civetteria. Quasi immobile sulla poltrona, il viso bianco le si animava e gli occhi le scintillavano nel ricordo, ch’era tutta la sua gioia.
Mi parlava delle giornate trascorse a cavallo, delle notti passate sulla paglia, a fianzo del marito, sotto il cielo sterminato della pampa, con la rivoltella carica vicino, dpronta per un attacco di indios o di puma, gli uomini e le belve del deserto americano, del pari temibili, e dai quali più di una volta aveva saputo bravamente difendersi. Per lunghi mesi, era vissuta – sola donna – in un accampamento di soldati, nutrendosi di carne male abbrustolita sovra un fuoco improvvisato, di pan secco inzuppato del mate, lavandosi in larghe pozzanghere d’acqua salnitrosa, cavalcando come una zingara con la treccia sfatta sulle spalle, coricandosi ogni srea vestita, con gli alti stivali di cuoio; aveva veduto combattimenti, razzie, massacri, cose terribili, e nulla poteva più farle paura, neppure “el diablo!” concludeva, ridendo del suo riso grasso che le squassava le flaccide carni sulle ossa doloranti.
Ma in quella vita selvaggia, piena di disagi e di pericoli, era stata felice; adorata dai soldati, ossequiata dagli ufficiali – le migli dei quali non avevano avuto il coraggio di seguirli – servita come una dama, difesa come una regina. Nelle piccole guarnigioni, la consideravano la signora del presidio “come una generala”: aveva organizzato, nelle solennità ufficiali, balli e festeggiamenti, inaugurato scuole e ospaedali, presieduto istituti di beneficenza, lasciato ovunque ricordi di pietà e di gentilezza (questo non lo diceva, ma era facile comprenderlo da qualche discreto accenno, mentre negli occhi azzurri passava una vaga lucentezza di lagrime): ovunque idoleggiata e benedetta come una fata.»

Cesarina Lupati, “Irenia” (fragm.), Novella d’oltremare. Milano: Fratelli Treves Editori, 1920.






[1] Caceuta, sorgente minerale sulla linea che da Mendoza va alle Ande.